La colpevole inerzia dei responsabili della cultura

da tuttoDanza
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A cura di Aldo Masella

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La ragazzina davanti a me, 11/12 anni, si chiama Marga. Alla domanda se è il diminutivo di Margherita, risponde “No! Marga era mia nonna” aggiunge “e la mamma ha voluto che ne portassi il nome“. I capelli acconciati in una piccola rouche dietro la nuca ed il portamento eretto, ne fanno una ginnasta o una danzatrice.

Studia danza, dice, e tiene a precisare che la sua maestra è diplomata presso…e mi cita il nome di una struttura lombarda. Poi, sottolinea “La mia maestra dice che non bisogna fidarsi dei docenti non diplomati“.

Le faccio osservare che, allo stato attuale, la quasi maggioranza degli istruttori dell’arte coreutica vanta, nel proprio curriculum, qualche titolo di abilitazione. Titoli conseguiti, il più delle volte, attraverso stage di poche ore patrocinati da comuni, regioni o addirittura con il beneplacito di strutture estere che forse nulla sanno dell’iniziativa presa da questo o tal’altro intraprendente organizzatore.

La legge 4 gennaio 1951 n° 28 promossa dall’Accademia Nazionale di Danza diretta all’epoca dalla signora Marta Borisenko Borelli, al secolo Ja Ruskaja, intesa a disciplinare l’insegnamento della danza in Italia, provocò il risentimento di una larga fascia di operatori del settore cui non andava a genio di dover sottostare ad un esame all’Accademia Nazionale di Danza che, sempre in quel’epoca, non godeva di un’eccessiva stima. La grande danzatrice Martha Graham, chiamata proprio dalla signora Ruskaja a produrre una coreografia per lo spettacolo di fine anno scolastico, arrivata a Roma insieme ad i suoi assistenti Helen Mc Gehee e Bertram Ross, informata di quanto sanciva la legge in questione, rifiutò di dare inizio ad ogni collaborazione e, a sue spese, tornò in America. I contenuti della tanto criticata legge, recavano però alcuni precisi chiarimenti in merito all’esercizio della professione. Più importante appariva la considerazione che, per poter insegnare, si dovessero contare almeno cinque anni di professionismo militante.

Nulla da eccepire. Se un docente ha alle spalle una lunga pratica coreografica svolta con collaborazioni di vario genere e stili, saprà meglio di chiunque altro spiegare ad un allievo la difficoltà cui si va incontro nell’eseguire passaggi complessi e difficili della tecnica coreutica.

La storia di ogni popolo civile” spiegava Leonide Massine ad un importante giornalista italiano “è cosparsa di maestri che ad ogni piè sospinto tirano in ballo illustri personaggi, tentando, raccontandone le glorie, di mascherare le proprie modeste capacità. Ma è tempo di volgerci a più produttivi impegni. È meglio lasciare nei monumentali cimiteri le tradizioni spente o addormentate da secoli. È umano additarle ad esempio, ma è imprudente tentare di indurre chiunque a resuscitarle“.

Se era intenzionato a suscitare un vespaio, Massine ci riuscì in pieno. Si levarono da ogni parte voci a sostegno e contro le tesi del coreografo russo. “Il maestro di ballo” sentenziavano i primi “purché conosca il suo mestiere, non è necessario che sappia chi era Anassagora di Clazomene“.

Il maestro di ballo” ribattevano gli altri “deve essere in grado di guidare l’allievo anche attraverso le emozioni suscitate dall’ascolto di un concerto di Brahms, o cullato dalle ‹Chiare, fresche e dolci acque› di Francesco Petrarca“.

La polemica, in essere ancora oggi, sta dividendo il mondo della danza. Molti, consci delle loro limitate capacità, vanno a procurarsi delle credenziali presso strutture che si dichiarano competenti in materia ed in cambio di un congruo compenso assicurano una certificazione che ha solo un valore simbolico; gli altri, si mettono in caccia di personaggi che possano vantare nel loro curriculum una preparazione impartita loro in circa otto anni di studio e sostanziata da una più o meno lunga appartenenza a un corpo di ballo.

Recatomi recentemente ad un convegno, uno dei tanti organizzati per cercare di far comprendere ai responsabili del dicastero cultura le ragioni della danza italiana, ho sentito perorare, in accorati interventi, le tesi di quanti rimproveravano ai governi succedutisi dal 1974, anno in cui la Corte Costituzionale dichiarò illegittima la legge n° 28 del 4.1.1951, un’ assoluta inerzia al riguardo. Non solo, ma la stessa riprovevole inerzia è stata mostrata quando, venendo meno al principio della loro costituzione, gli enti lirici hanno soppresso i corpi di ballo e chiuso, arbitrariamente, le scuole.

I recenti provvedimenti con i quali si è cercato di dare un modesto respiro ad alcune strutture, suscitano solo un sorriso di compatimento considerato che, la vicina Francia, ha espresso in materia una legge non solo inattaccabile, ma sufficiente ad andare incontro ad ogni esigenza a livello nazionale.

Il disappunto espresso da un ex coreuta deciso di passare all’insegnamento, mi è sembrato emblematico: “Abito nell’estremo sud dell’Italia da dove, a mezz’ora di treno, posso trovare un Conservatorio di Musica. Perché non poter trovare anche un’Accademia di Danza o una struttura atta a preparare il futuro docente di danza?

E i giovani?

Reagiscono da par loro. Con una smorfia di delusione vanno a cercare all’estero ciò che in patria non riescono a trovare.

Aldo Masella

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