Recensione di Woolf Works al Teatro alla Scala

da tuttoDanza
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McGregor, Richter, Ferri – Bonelli e tutto il Ballo della Scala hanno reso questo spettacolo, anche allo spettatore inizialmente più scettico, un viaggio emozionante: ecco la nostra recensione di Woolf Works al Teatro alla Scala. 

RECENSIONE DI WOOLF WORKS AL TEATRO ALLA SCALA DI MILANO • Sicuramente rappresentare Woolf Works in un teatro come quello della Scala è stato un grande rischio, poiché si sa il pubblico italiano di balletto è ancora molto affezionato ai grandi classici e forse poco predisposto ad assistere all’ innovazione. Debbo dire che questo atteggiamento non è valso per questo spettacolo fortunatamente, anzi molti sono stati gli applausi che si sono protratti ad ogni intervallo anche oltre l’accensione delle luci in sala. Forse perché questa volta le aspettative erano più basse del solito? Per capirlo, proviamo ad andare con ordine e riportare quelle che sono state le sensazioni generali della serata e che siamo stati in grado di captare grazie ai vari commenti percepiti tra il pubblico. Sicuramente alla base di ogni spettatore c’era tanta curiosità, poiché la sfida era anche quella di rappresentare Virginia Woolf attraverso i suoi scritti. Un terreno sicuramente difficile da affrontare, dato che la Woolf, anche quando la si studia a scuola ,è una di quelle autrici che o ti piace o non ti piace. É però oggettivo il suo fascino artistico per il suo modo di rappresentare la realtà; trasformando la sua esistenza in laboratorio della sua ricerca. Ed è proprio da qui che parte tutto il lavoro del coreografo Weyne McGregor, in particolar modo inizia dalle domande che egli stesso si pone davanti all’immensità artistica della Woolf. Insieme alla drammaturga Uzma Hameed il lavoro è stato meticoloso e insieme sono partiti da un’unica domanda: “Perchè non è mai stato fatto prima?”. Una parziale risposta l’hanno trovata proprio in una specifica riflessione di Virginia Woolf, dove lei stessa afferma che:  “Il libro in quanto tale non è una forma che si vede, bensì un’emozione che si prova”. Sicuramente questo è stato uno dei punti focali dal quale si è sviluppato tutto il lavoro, ma la parte più cara a McGregor sono stati i temi dell’innovazione e dell’invenzione, punti in comune con i suoi lavori precedenti, e che hanno fatto della Woolf un soggetto potenzialmente interessante per la sua creazione.

 

Alessandra Ferri in “I now, I then”. © Ph. Brescia e Amisano

La serata si divide in tre quadri, ognuno ispirato ad un romanzo diverso della scrittrice:    I now, I then – “Mrs. Dalloway”, Becomings – “Orlando”, Tuesday – “The Waves”. Lo spettacolo inizia con un estratto vocale dell’unica registrazione originale di Virginia Woolf e subito lo spettatore ha l’impressione di intraprendere un viaggio nel romanzo, raccontato anche attraverso gli stati d’animo e gli elementi autobiografici della stessa scrittrice. L’occasione ha visto il ritorno sul palcoscenico scaligero di Alessandra Ferri, per anni padrona di casa dell’ente meneghino, e per quanto ci riguarda, ancora degna di tale appellativo in questo spettacolo: poiché nessuna come lei, avrebbe saputo rendere il ruolo così perfetto data la sua maturità artistica, ma ancor di più per quella esecutiva. Nel primo quadro, di grande impatto è anche la scenografia formata da tre cornici quadrate di diverse dimensioni in legno grezzo, che per tutta la durata del quadro roteano lentamente su loro stesse in senso orario. Oltre alla figura di Clarissa adulta/Virginia Woolf, nel primo quadro sono presenti altri sette personaggi: Richard, Clarissa giovane, Peter, Sally, Septimus, Rezia e Evans. La figura di Peter, interpretata da Federico Bonelli, artista ospite della produzione, è sicuramente una figura molto rispettosa ed umile soprattutto nei confronti dei personaggi femminili con i quali interagiva. Assolutamente degne di nota sono anche le due interpreti di Sally e Clarissa giovane, rispettivamente Agnese Di Clemente e Caterina Bianchi, le quali si sono dimostrate molto genuine e allo stesso tempo sicure nello stile, donando ai ruoli la giusta spensieratezza che richiedevano. Altri due danzatori sicuramente meritevoli di menzione sono stati Claudio Coviello e Timofej Andrijashenko che nei rispettivi Septimus e Evans hanno emozionato il pubblico trascinandolo nella storia attraverso il loro movimento fluido e stilisticamente personale, restituendo una qualità che ha tenuto lo spettatore incollato alla scena, dove nessuno (e dico nessuno) ha accennato un colpo di tosse o uno sbuffo come magari talvolta può capitare. Questo è sicuramente sinonimo di un grande talento.

 

La medesima reazione il pubblico l’ha avuta anche nel secondo quadro, dove tutti gli interpreti hanno regalato allo spettatore un’atmosfera molto surreale, ma allo stesso tempo affascinante. Infatti Mc Gregor con Becomings ha vuoluto rappresentare la parte forse più astratta di “Orlando”, ma comunque rendendola così vera che il pubblico rimane in qualche modo travolto da tutto: coreografia, emozioni, sensazioni, scene, luci, interpretazione. Insomma è come se lo spettatore stesso diventasse parte integrante esterna dello spettacolo grazie anche al disegno luci molto innovativo di Lucy Carter, che con dei laser è stata capace di allargare lo spazio scenico comprendendo tutta la platea e ricoprendo con una fila di luci i tre ordini dei palchi. Altro grande merito ovviamente va ai dodici interpreti: Nicoletta Manni, Virna Toppi, Maria Celeste Losa, Agnese Di Clemente, Martina Arduino, Timofej Andrijashenko , Nicola del Freo, Valerio Lunadei, Gabriele Corrado, Claudio Coviello, Christian Fagetti e Marco Agostino. Tutti degni di nota, nessuno escluso poiché sono riusciti a trasmettere un’energia molto coinvolgente e a tratti anche appassionante. Su tutti sicuramente spiccano: Nicoletta Manni con la sua naturale elasticità nel movimento e la sua sicurezza tecnica, qualità oggi giorno talvolta difficili da far coesistere, ma grazie a ciò lei riesce sempre ad avere un’influenza particolare all’occhio dello spettatore; Christian Fagetti che risulta sempre molto naturale in questi stili, regalando alla coreografia un tocco deciso e incontestabile.

 

T. Andrijashenko e N. Manni in “Becomings”. © Ph. Brescia e Amisano

Il terzo quadro ha inizio già durante l’intervallo, poiché non appena si accendono le luci in sala alla fine di Becomings, si viene trasportati direttamente nell’atmosfera di Tuesday con il riecheggiare in sottofondo di un piacevole suono di onde che si protrae fino all’inizio del quadro dove sullo sfondo vengono proiettate proprio delle onde che in lento e continuo movimento cullano lo spettatore durante tutto il terzo estratto. “The Waves” è sicuramente l’opera più sperimentale di Virginia Woolf poiché tratta della sua mancanza di prole, messa in contrasto a quella ingente della sorella Vanessa. Inutile rimarcare la perfetta abilità di tutti i ballerini nell’esecuzione e soprattutto la qualità anche dell’interpretazione. In questo quadro si fondono i temi tratti da “The Waves”, che hanno a che fare con l’iconografia subacquea e con l’evocazione al suo suicidio avvenuta proprio per annegamento. Per tutto l’estratto si vive ogni singolo crescere di emozioni e stati d’animo che avvengono all’interno della protagonista, grazie anche alla musica che, con il suono curvo del timpano sulla melodia sempre più incalzante, dà proprio la sensazione dell’incresparsi del mare che sempre di più aumentano fino ad arrivare alla resa  della Woolf che adagiata al suolo dalle onde (interpretate da ballerini) si lascia andare alla morte.

 

Alessandra Ferri e il Corpo di Ballo. © Ph. Brescia e Amisano.

Altra grande fonte di emozione per tutta la serata è stata proprio la musica di Max Richter che per quanto siamo abituati, talvolta inconsciamente, ad udirla nei grandi film, questa volta suonata dal vivo da un’orchestra è da pelle d’oca e ha certamente saputo dare allo spettacolo quel tocco ammaliante in più che ci ha trasportato perfettamente nel mondo di Virginia Woolf.

 

È anche un piacere, riportare il meritato successo che ha avuto lo spettacolo. Tutto il pubblico era davvero entusiasta della serata e lo ha dimostrato attraverso i lunghi applausi. Dunque, una sfida ampiamente superata la messa in scena di Woolf Works, poiché è stata in grado di stravolgere completamente il pregiudizio dello spettatore che, indipendentemente dall’età, se all’inizio è arrivato a teatro un po’ scettico, uscendone ha avuto soltanto elogi positivi nei confronti di ogni elemento che ha composto lo spettacolo. Perciò non crediamo che questo sia dovuto al tipo di aspettative iniziali, ma piuttosto pensiamo che quando una macchina teatrale è in grado di coadiuvare così bene tutti gli elementi dello spettacolo, il merito è solo ed esclusivamente dell’impegno e del talento che ogni singolo componente investe nello spettacolo, regalando così un risultato sorprendente. Certamente il massimo lo si raggiungerà quando per tutte le recite la platea non avrà neanche un posto vuoto, perché purtroppo l’unico rammarico della serata è stato proprio il numero di spettatori, che nonostante fosse comunque alto rispetto agli standard per questo genere di titoli (purtroppo) non altisonanti, di certo non è stato come ci si aspetta da un teatro così storicamente importante, dove tutti i corrispettivi nel mondo raggiungono risultati ben più gratificanti.

 

Alessia Campidori

 

 

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